Storia antica

Bacchiolatura delle ghiande. Abrigo della Sarga Plinio il Vecchio nel libro XVI del suo monumentale Naturalis Historia del 77 d.C. parla delle querce descrivendone (ed a volte confondendo) diverse specie; accenna alle ghiande dal punto di vista alimentare, differenziandole fra quelle dolci e quelle più amare. Ed aggiunge una cosa fondamentale per la comprensione del ruolo delle ghiande nell’alimentazione dell’umanità; dice, infatti, che le ghiande sono consumate da certi popoli anche in tempo di pace. In questo modo lascia intendere che le ghiande possono avere ruoli diversi a seconda dei luoghi, dei tempi storici e delle fasi culturali. Alcuni popoli le consumano solo in tempi di carestia ed altri, invece, se ne cibano anche in tempi normali. La scelta, quindi, è principalmente culturale.

Nella foto la riproduzione di una pittura rupestre nella quale sembra di vedere una scena di raccolta mediante la bacchiolatura di un albero che potrebbe essere una quercia.

 

Secondo Plinio, uno dei popoli che ha fatto la scelta di mangiarle in ogni tempo sono i Sardi dell’interno dell’isola che le trasformano in pane. Un altro popolo che ne fa largo uso sono gli Iberici, come piatto forte. Quindi ai suoi tempi il consumo delle ghiande era ancora assai diffuso e per quanto appannaggio di popoli periferici, non destava particolare impressione.

Una cinquantina di anni prima, Strabone affermava che certi popoli dell’interno della Spagna mangiano, per i due terzi dell’anno, del pane di ghiande, che seccano, pestano e riducono in farina. Tale pane si conserva molto a lungo. E, in effetti, i resti archeologici di città preromane, come Numancia, attestano pienamente quest’abitudine. Un’ulteriore conferma ci viene da Lucio Anneo Floro, nel primo secolo dopo Cristo, che racconta di una legione romana, di stanza in quella regione, che si ritrovò senza grano per problemi logistici; localmente non fu trovato altro cibo che le focacce di ghiande ed i soldati si rivoltarono.   

Ancor prima, la raccolta delle ghiande doveva essere di grande importanza, se si pensa che la VII delle XII tavole delle leggi romane del 450 a.C. si prende il disturbo di affermare che le ghiande cadute nel terreno di un vicino possono essere recuperate dal padrone dell’albero e non da quello del terreno. Settanta anni dopo perfino Platone parla delle ghiande, nella ben più colta e raffinata Atene, indicandole, ne II libro della Repubblica, come adatte a fornire un buon dessert, abbrustolite, agli abitanti della Città Ideale. Ma è chiaro che si tratta di utopia perché, scherzosamente, si dice subito dopo che quel regime alimentare più si confà ad un allevamento di maiali!  

È invece sorprendente che un secolo dopo Plinio, il nobile Aulo Gellio parli nel VI libro delle sue Noctis Atticae, del 159, di sopraffine ghiande, provenienti proprio dalla Spagna, contese nei banchetti della crema sociale di Roma e le compari addirittura con le ostriche di Taranto o i datteri egiziani.

L’archeologia contribuisce con altre importanti informazioni. I resti carbonizzati trovati nelle importanti grotte di Traforalt, in Marocco, testimoniano che quella  popolazione vissuta fra 15.000 e 13.500 anni fa utilizzava una grande varietà di cibi vegetali, fra i quali pistacchi e pinoli, ma soprattutto ghiande. Viene anzi attribuita ai glucidi presenti in questi frutti la causa principale della grande diffusione di carie che presentano i numerosi scheletri rinvenuti. 

Ghiande sono state trovate anche in una delle prime città del mondo, a Çatalhöyük in Turchia, quando l’agricoltura e la raccolta erano ancora alla pari fra le strategie di sopravvivenza dei popoli. Il fatto che questi semi fossero spesso conservati nello stesso vaso o nello stesso deposito, tutti mescolati insieme, dà l’idea che, parimenti, insieme venissero macinati e consumati, facendone delle farine miste i cui resti, in effetti, sono stati ritrovati. È probabile che tali farine fossero consumate sottoforma di farinate più che di vero e proprio pane.

In Palestina anche l’uomo di Neanderthal mangiava le ghiande (insieme ai semi di moltissime altre piante) fra i 50 ed i 60.000 anni fa. A giudicare dal carbone ritrovato si doveva trattare di ghiande della quercia Vallonea (Q. ithaburensis) che è la più dolce del Mediterraneo orientale. 

Ancora, in Palestina è stata trovata la più antica testimonianza del consumo delle ghiande da parte degli uomini, sia pure ben diversi da noi. Nel sito di Gesher Benot i resti di pasto appartenevano a ben 55 specie vegetali diverse a dimostrazione della enorme variabilità di quella dieta. Fra questi non potevano mancare numerosi frammenti di ghiande di Q. ithaburensis e di Q. caliprinos.  L’incredibile datazione è di 780.000 anni fa. I resti vegetali si sono conservati in quanto bruciati, con certezza in modo intenzionale: cotti, in altre parole. E vi sono pietre probabilmente usate per rompere le noci, forse anche le ghiande, molto simili a quelle usate dagli indiani della California fino a pochi decenni fa.   

All’età del Bronzo spagnolo risalgono le capanne del complesso de Los Cipreses a Lorca o quelle del Rincon de Almendricos. Nelle porzioni di capanna destinata all’immagazzinamento o all’elaborazione vi sono resti di ghiande, che sembrerebbero di Q. rotundiflia. Nell’età del Ferro, nel villaggio de La Hoya, nel Paese Basco, le ghiande sono presenti, accanto ai cereali. Nello stesso periodo, in Belgio, si stoccavano grandi quantità di ghiande. 

Le evidenze materiali sono molto più rare negli scavi italiani, rispetto a quelli spagnoli. Una delle relativamente poche eccezioni è quella del villaggio dell’età del Ferro di Genna Maria, non a caso, in Sardegna.  C’e’ da chiedersi se ciò dipenda dal fatto che in Spagna (a differenza dell’Italia) fosse diffuso il leccio della varietà ballota a frutti dolci, consumati volentieri ed in gran copia, oppure se ci sia stata meno attenzione da parte dei nostri archeologi a questo aspetto, non tanto nella fase di scavo, quanto in quella di studio e pubblicazione. Solo recentemente, infatti, si comincia a prestare attenzione, in ambito accademico italiano, alle ghiande rinvenute negli scavi, come se, fino ad ora, si fosse voluto sottostimare il loro apporto alla dieta dei differenti popoli, relegandole a cibo per animali o a consumi episodici: una sorta di miopia causata dal rifiuto culturale verso questo cibo. Gli archeologi spagnoli, invece, sarebbero stati più attenti alle ghiande in quanto, presso di loro, tale rifiuto è molto meno netto. Una prova di quanto appena affermato potrebbe stare nel fatto che gli archeologi spagnoli trovano resti di ghiande non solo nelle zone dove queste sono dolci, ma anche in quelli dove sono tanto amare come quelle italiane.

In tempi storici, gli arabi sembrano invece avere un migliore approccio al consumo di ghiande, che non vengono così aspramente disprezzate come presso i cristiani. Per prima cosa è evidentemente assente lo sgradevole accostamento fra ghiande e maiali essendo quest’ultimi banditi nei paesi mussulmani. Presso gli scrittori arabi sembrano prevalere le preoccupazioni sanitarie sui possibili danni che l’eccessivo consumo di ghiande può provocare al corpo. Si consiglia quindi di accompagnare il pane di ghiande con cibi molto grassi che ne attenuino il gusto amaro. La fonte sono le opere di agronomi arabo-andalusi, dei quali uno riporta anche una ricetta per il pane tratta dalla tradizione nabatea e quindi medio-orientale. Secondo questo agronomo alle ghiande va tolto il sapore amaro con ammolli in acqua e successive bolliture. Poi asciugate e sbucciate vanno macinate. Con le ghiande dolci si passa direttamente alla macinatura. A tale farina si aggiunge una metà o un terzo di farina di castagne, lievito di farina di grano e si ottiene un buon pane, anche se è costretto ad ammettere che è un po’ amaro, che può causare disturbi al fegato e che andrebbe riservato ai tempi calamitosi.

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